• Pubblicata il
  • Autore: Ester Trav
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Le zucchine crescono - La Spezia Trasgressiva

Avevo passato tutto il pomeriggio alla stazione centrale con la speranza di essere notata. Del resto indossavo una micro-minigonna in lattice; sotto ero senza mutandine; ma le due strisce elastiche agganciate alla Guepiere ai lati delle cosce si notavano eccome quando, sedendomi qua e là, allargavo le gambe a chi mi si faceva incontro. A un certo punto mi era parso che un tizio avesse preso a osservarmi; ma mi sbagliavo. Magari era incuriosito, certo non attratto. Ho lasciato la Stazione Centrale verso le cinque del pomeriggio, sono salita in macchina e mi sono diretta al pub più vicino. Lì avrei quasi sicuramente trovato qualche uomo che faceva al caso mio, ne ero sicura. Quando ho spalancato la porta del pub, un sacco di gente si è voltata e ha cominciato a squadrarmi da capo a piedi. Stavo producendo un suono del tutto singolare con i tacchi; a terra c’erano delle listelle di legno massiccio che scricchiolavano sotto la pressione dei miei ‘spilli’. Un uomo maturo, suppergiù cinquantenne, mi ha notata subito. Se ne stava seduto, curvo, al bancone, davanti alla sua pinta di birra schiumosa. “Ehi, bella”, ha detto. “Da dove salti fuori tu”. Lì per lì mi è venuto da sorridere. Pensavo non si fosse reso conto che ero un Trav. “Da lì”, ho risposto, indicando la porta d’ingresso. Si è messo a ridere e subito dopo ha picchiettato la mano sullo sgabello affianco al suo. “Siediti qua con me allora. Che ne dici”. Le altre persone, sedute dietro di noi, ci guardavano. “Okay”, ho detto, e mi sono seduta accanto a lui. “Bevi qualcosa?”, mi ha chiesto. “Una birra piccola”, ho detto. “Charlie! Fa’ una birretta alla mia amica qua”. Poi si è voltato. “A proposito, com’è che ti chiami tu?”. “Ester”, ho detto. “Mi chiamo Ester. E tu?”. “Matteo. Piacere”, pizzicandomi una coscia. “Di’ un po’, ma tu vai sempre in giro vestita così o questa è un’occasione speciale”. Sono scoppiata a ridere. “Sì, be’, mettiamola così: diciamo che è una occasione speciale”. Intanto mi viene servita la birretta. “E… sentiamo, di che occasione si tratta”. Ho avvicinato la mia bocca al suo orecchio e gli ho sussurrato: “Voglio essere chiavata”. Ha sorriso, in silenzio. “A dire il vero io avevo in mente qualcos’altro, per una come te”, ha detto a bassa voce. “Cosa”, ho chiesto incuriosita. Mi ha afferrata per un braccio e ha aggiunto: “Seguimi, vacca”. Era proprio l’uomo che stavo cercando. L’avevo trovato. In quel pub. Mi ha trascinato lungo un corridoietto. Poi ha aperto una porta su cui era affisso il cartello W.C. con sotto un pezzo di carta attaccato con del nastro adesivo riportante la scritta GUASTO. Il bagno era piccolo, composto di una turca, un piccolo lavello e un armadietto senza ante. Mi ha dato una spinta, con violenza, facendomi cadere sopra la turca. “’Sta là, troia, che adesso ti faccio vedere cosa ho in serbo per te”. Sapevo già dove voleva arrivare. Ha tirato fuori la verga e ha cominciato a pisciarmi addosso. Dapprima il fiotto di piscia era indirizzato ai miei piedi. Poi sempre più in alto, mano a mano che il suo cazzo cominciava a crescere, fino a centrarmi in faccia. “Apri la bocca, vacca”. Ho aperto la bocca. Me l’ha riempita di piscia per un minuto buono. Non la finiva più di urinare. Ero fradicia di piscia. Una volta finito, ha detto: “Adesso aspetta qua. Non è ancora tutto”. A turno sono arrivati altri suoi amici. Hanno cominciato a pisciarmi addosso uno dopo l’altro. Mentre mi inondavano con la loro pioggia dorata, io mi segavo. Entrarono e uscirono in cinque o sei, ridendo e bestemmiando, insultandomi e sputandomi sul cazzo. Erano tutti ubriachi marci. Pisciavano come dei tori, con tutta la birra che si erano scolati. Poi sono spariti, tutti assieme. Così sono rimasta da solo, nel cesso, seduta sulla turca, con i vestiti intrisi di piscia. Mi sono alzata e ho cercato di uscire, ma quelli avevano chiuso la porta a chiave dal di fuori. Sono rimasta chiusa in quel cesso fradicia di piscia per un’ora. Nonostante picchiassi i pugni sulla porta con tutta la forza che avevo in corpo, pareva che nessuno mi sentisse. Finché non sento qualcuno armeggiare con la serratura. Finalmente la porta si apre. E’ Charlie, il barista. “Che ci fai tu qui dentro”. “Mi hanno chiusa qui, quegli stronzi”. “Che hai addosso. E’ piscia quella?”. “Sì”, ho detto. E’ entrato e ha chiuso la porta dietro di sé. “Mi eccita la piscia”, ha detto. Poi mi ha fatta inginocchiare e ha sfoderato il cazzo. Gli ho succhiato il cazzo come voleva. Quando era bello turgido, mi ha girata e ha cominciato a chiavarmi sopra la turca. Me lo ha infilzato dentro velocemente. La piscia e la saliva avevano prodotto un effetto lubrificante: non me ne sono nemmeno resa conto: lui era già tutto dentro di me fino all’elsa. Mi ha sbattuto dentro il cazzo per cinque minuti. Poi lo ha tolto dal buco del culo e mi ha costretta a bere il suo seme. Sborrava come un cammello. La sborra mi usciva dai lati della bocca. Lui me la rificcava dentro dicendo: “Devi berla tutta, troia”. Concluse le operazione, si è voltato e ha detto: “Là dentro ci sono degli asciugamani. Sistemati e esci dal retro”, mentre si tirava su i pantaloni. “Eri tu l’uomo che stavo cercando”, gli ho detto, allora. “Davvero? Ripassa quando vuoi, troia”, poi ha guardato verso il basso. “Ti sei sborrata addosso eh, vacca. Allora hai proprio goduto”. “Sì”, ho detto io. “Sei il mio uomo”. “Adesso asciugati e vai, troia”, e se ne è andato. La porta su retro dava su un angolo di giardino coltivato. Ho raccolto quella che con tutta probabilità sarebbe dovuta diventare una zucchina, e me ne sono andata ridendo come un’ossessa.

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